Le nuove regole prevedono esplicitamente le ipotesi in cui le imprese non potranno assolutamente far ricorso alla somministrazione di manodopera (c.d. affitto di manodopera).
È sancito in particolare il divieto:
Il Decreto Legislativo n. 276 del 10 settembre 2003, attuativo della legge n. 30 del 14 febbraio 2003 (la cosiddetta Legge Biagi) di riforma del mercato del lavoro, ha introdotto alcune rilevanti novità in materia di rapporti di collaborazione determinando l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico di nuove forme di collaborazione che sono andate ad aggiungersi e, in alcuni casi a sostituire le collaborazioni coordinate e continuative tradizionali.
Allo stato attuale, il panorama dei rapporti di collaborazione ai sensi dell’art. 2222 c.c. ricomprende:
Il Decreto Legislativo n. 276/2003 (riforma Biagi) ha introdotto una nuova forma di rapporto di lavoro parasubordinato: il lavoro a progetto.
Il lavoro a progetto, in realtà, non è una tipologia di collaborazione completamente nuova, ma piuttosto una sorta di rivisitazione delle preesistenti collaborazioni coordinate e continuative. In aggiunta ai tradizionali requisiti fin qui analizzati, quali l’assenza di subordinazione, la continuità, la coordinazione nonché la natura prevalentemente personale della prestazione, il rapporto di lavoro deve poter essere ricondotto a un progetto, un programma ovvero una fase di lavoro.
Con la circolare n. 1 dell’ 8 gennaio 2004 il Ministero del Lavoro ha fornito la definizione di progetto: si intende un’attività produttiva ben identificabile e funzionalmente collegata ad un determinato risultato finale che può essere connesso all’attività principale o accessoria dell’impresa.
Per programma o fase di lavoro si intende un tipo di attività cui non è direttamente riconducibile un risultato finale e si caratterizzano per la produzione di un risultato solo parziale destinato ad essere integrato, in vista di un risultato finale, da altre lavorazioni e risultati parziali.
In assenza di un progetto, programma o fase di lavoro, il rapporto instaurato non può in alcun modo configurare una collaborazione a progetto ma, per espressa previsione legislativa, è considerato un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione (art. 69, comma 1, D. Lgs. n. 276/03).
Tale presunzione può essere superata solo in sede giudiziale con onere della prova a carico del committente, che dovrà poter dimostrare la natura autonoma del rapporto di lavoro.
Il contratto di lavoro a progetto deve avere forma scritta ai fini probatori e deve contenere le seguenti informazioni:
L’art. 61 comma 2 D. Lgs. N. 276 /2003 ha espressamente escluso dal campo di disciplina del lavoro a progetto, le prestazioni occasionali.
Questa esclusione ha rilievo solo ai fini civilistici, in quanto dal punto di vista fiscale si tratta sempre di un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa che deve svolgersi nell’ambito del coordinamento e continuità della prestazione. Pertanto, i compensi derivanti da queste tipologie di prestazioni di collaborazioni occasionali si ritiene debbano essere sempre assimilati al reddito di lavoro dipendente e rientrano, quindi, nella disciplina prevista dall’art. 5, comma 1, lettera c-bis del TUIR.
Il contratto di lavoro a progetto si risolve:
Tale previsione tutela sia il committente il quale, da un lato, si riserva la possibilità di recedere dal contratto anticipatamente, seppure pagandola suddetta penale, qualora, ad esempio, non sia soddisfatto dell’operato del collaboratore, dall’altro, rendendo oneroso l’eventuale recesso da parte del collaboratore, rafforza il vincolo contrattuale instaurato con il prestatore.
I rapporti di collaborazione privi di un progetto programma o fase di lavoro, già in essere alla data del 24 ottobre 2003 (data di entrata in vigore della rifoma Biagi), mantengono la loro efficacia fino alla loro naturale scadenza e, comunque, non oltre il 24 ottobre 2004.
Per espressa previsione legislativa, in presenza di accordo sindacale aziendale, sarà possibile prevedere che i contratti in esame abbiano una validità temporale più lunga a condizione che nell’accordo sia definita la transizione di questi collaboratori verso:
L’art. 2118 c.c. stabilisce che ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità. Il legislatore ha stabilito che il datore di lavoro può licenziare ad nutum (cioè senza alcuna motivazione) solo nei casi di giusta causa o giustificato motivo.
La legge non determina il significato di giusta causa: infatti, l’art. 2119 c.c. si limita a definire genericamente come giusta causa di licenziamento quella che non consente la prosecuzione anche provvisoria del rapporto, vale a dire neppure il periodo di preavviso.
Secondo la giurisprudenza la giusta causa di licenziamento è rilevabile dal giudice se viene accertata in concreto - in relazione alla qualità e al grado del particolare vincolo di fiducia che quel rapporto comportava - la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, specie con riferimento alle particolari circostanze e condizioni in cui è posta in essere, ai suoi modi, ai suoi effetti e all’intensità dell’elemento psicologico dell’agente, risulti obiettivamente e subiettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente.
Un'altra sentenza della Cassazione ha stabilito che il venir meno del rapporto fiduciario tra le parti può essere dovuto sia ad inadempimenti contrattuali che a fatti extracontrattuali che possano influire sulla reputazione o sull’interesse dell’azienda, essendo comunque ininfluente l’assenza di un danno patrimoniale.
Non possono considerarsi giusta causa ai fini del licenziamento:
In alcune sentenze è stata riconosciuto la giusta causa del licenziamento nelle ipotesi di:
I cosiddetti standard di comportamento, sono stati enunciati da due recenti e discutibili sentenze della Corte di cassazione, così enunciando un principio in tema di giusta causa di licenziamento che, se confermato da sentenze successive, potrebbe portare a un assetto della materia nuovo e imprevedibile.
La vicenda trae origine da due distinti episodi, legati ad altrettanti licenziamenti per giusta causa, dichiarati illegittimi dal Tribunale. Le due sentenze del Tribunale sono state però annullate dalla Corte di cassazione, con i provvedimenti n. 10514 del 22/10/98 e n. 434 del 18/1/99.
Entrambe le sentenze della suprema Corte partono dalla nozione di giusta causa fornita dall'art. 2119 c.c., che consente il licenziamento in tronco allorquando si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro. Tuttavia, la Corte ritiene che questa definizione sia troppo generica e che, per integrarla, si debba far riferimento a regole della civiltà del lavoro, rinvenibili nell'insieme dei principi giuridici espressi dalla Corte di cassazione e che stabiliscono quali comportamenti, in un dato contesto storico - sociale, siano esigibili dalle parti.
Per questa via, secondo l'opinione della Corte, è possibile individuare standard di comportamento. Pertanto, nel caso di un licenziamento per giusta causa, il giudice di merito (Pretore o Tribunale) deve valutare la conformità a questi standard del comportamento, contestato al lavoratore licenziato. Inoltre, la suprema Corte ha il potere di controllare questo giudizio di conformità, eventualmente annullando la sentenza che abbia compiuto un accertamento errato.
Questi principi rappresentano una svolta che può portare a risultati imprevedibili. La giurisprudenza aveva sempre fornito, alla pur generica nozione di giusta causa, un contenuto assai prudente, legato al caso concreto, alla qualità delle parti, alla intensità del rapporto fiduciario che lega il lavoratore al suo datore di lavoro. Inoltre, si è sempre considerato che il licenziamento in tronco è una sanzione irrimediabile; pertanto, il giudizio di legittimità di un licenziamento per giusta causa presuppone l'accertamento, sempre da svolgersi nel caso concreto, che il rapporto di lavoro è definitivamente compromesso e non può essere ricucito.
Si vede bene, dunque, la svolta insita nelle pronunce della Corte. Per questa via, la suprema Corte conferisce a se stessa una sorta di potere legislativo, o quanto meno il potere di emanare, attraverso le proprie sentenze, una sorta di casistica di ciò che configura giusta causa di licenziamento, con effetti vincolanti per tutti. Il principio è dirompente, dal momento che la Corte non solo non ha - come è ovvio - potere legislativo, ma neppure ha il potere di vincolare, con le proprie sentenze, soggetti diversi dalle parti in causa.
Sotto un diverso profilo, il principio affermato dalla Corte ha esiti imprevedibili. Benché la Corte parta dalla esatta osservazione che la nozione di giusta causa fornita dalla legge è generica (ma non potrebbe essere diversamente), si finisce per prescrivere una terapia che rischia di essere peggiore del male. In altre parole, se l'obiettivo della Corte era quello di fornire certezza del diritto, il risultato che concretamente si ottiene è esattamente il contrario, dal momento che le c.d. regole della civiltà del lavoro sono, per forza di cose, evanescenti, disperse in una miriade di sentenze difficilmente catalogabili e, per di più, di volta in volta dettate da esigenze che tengono conto del caso concreto più che di una regola generale di comportamento. In buona sostanza, se dovesse prendere piede la teoria degli standard di comportamento, ogni lavoratore licenziato rischia di diventare ostaggio del giudice di cassazione che esaminerà la sua vicenda, e della sua personale opinione in ordine alle pretese regole della civiltà del lavoro.
Nei casi di licenziamento per giusta causa il preavviso non è dovuto. È tuttavia necessario l’osservanza di alcuni requisiti tipici di tale forma di risoluzione:
Il datore di lavoro può procedere al licenziamento senza obbligo di motivazione:
Il licenziamento ad nutum, nei casi in cui è ancora consentito, può essere esercitato solamente nei contratti di lavoro a tempo indeterminato. Se il datore di lavoro intende risolvere ad nutum un contratto di lavoro a termine, è tenuto a risarcire i danni.
Il licenziamento può essere:
La tutela obbligatoria si applica per il datore di lavoro pubblico o privato, imprenditore non agricolo e non imprenditore che ha un numero di dipendenti non superiore a 15; oppure l’imprenditore agricolo che non supera i 5 dipendenti per ogni unità produttiva.
La tutela obbligatoria impone al datore di lavoro che intenda effettuare il licenziamento di motivarlo con la giusta causa o con il giustificato motivo e di notificare il provvedimento al lavoratore interessato nei termini stabiliti, ma non comporta necessariamente l’obbligo di reintegrazione qualora il Giudice accerti l’illegittimità del licenziamento. Quindi il datore di lavoro si trova nell’alternativa, qualora venga accertato l’illegittimità del licenziamento di scegliere tra un obbligo primario e cioè la riassunzione, e un obbligo secondario di natura prettamente economica, consistente nel pagamento di una determinata indennità.
Se il datore di lavoro decide di pagare dovrà versare al lavoratore tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore ha prestato servizio per oltre 10 anni quest’ultimo ha diritto a 10 mensilità.
Inoltre, si dovrà tenere conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore, nonchè del comportamento e della condizioni delle parti.
In ogni caso, prima di ricorrere al Giudice, è necessario promuovere il tentativo di conciliazione e arbitrato. Si tratta di una procedura, di regola attivata da una organizzazione sindacale, che si svolge presso l’Ufficio Provinciale del Lavoro e della Massima Occupazione, che ha il compito di cercare una soluzione bonaria della controversia.
La tutela reale trova la sua fonte nell'art. 18 della legge 300/1970 (Statuto dei lavoratori).
L’art. 18 Legge 300/1970 si applica alle aziende con più di 15 dipendenti in ciascuna unità produttiva; oppure con più di 15 dipendenti nello stesso Comune anche in unità produttive più piccole; più di 60 dipendenti ovunque siano ubicate le singole unità produttive; datori di lavoro agricolo con più di 5 dipendenti in ciascuna unità produttiva.
Per i datori di lavoro che hanno effettuato un licenziamento discriminatorio si applica qualunque sia il numero dei lavoratori.
La tutela reale prevede a differenza della tutela obbligatoria la reintegrazione nel posto di lavoro qualora il giudice accerti l’illegittimità del licenziamento. Quindi in questo caso non vi è l’alternativa per il datore di lavoro della riassunzione o del pagamento.
Di conseguenza il Giudice ordina la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e di risarcirgli il danno, con la corresponsione di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto, dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali relativi al periodo; in ogni caso la misura al risarcimento non può essere inferiore alle 5 mensilità.
L'art. 2118 c.c. prevede che ciascuno dei contraenti possa recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, con l'obbligo di concedere alla controparte un termine di preavviso.
In mancanza di tale termine di preavviso il recedente deve corrispondere alla controparte un'indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso stesso, previo consenso della parte receduta.
Quest’ultima indennità (indennità sostitutiva di preavviso) ha natura risarcitoria e non retributiva, sebbene sia commisurata all’importo della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore nel periodo suddetto.
Purtroppo talvolta accade che il datore di lavoro prenda di mira un lavoratore attivo sul piano sindacale, adottando nei suoi confronti provvedimenti disciplinari anche per errori lievi che, se fossero stati commessi da un collega non impegnato sindacalmente, non avrebbero provocato alcuna reazione. La cosa è tanto più grave se si pensa che, per somma di sanzioni anche lievi, si può giungere al licenziamento. Ciò nonostante, il delegato sindacale non è tutelato, nei confronti del licenziamento, più di un normale lavoratore; tuttavia, egli ha un efficace strumento processuale in più. Infatti, nel caso di licenziamento del delegato sindacale, oltre alla ordinaria causa promossa dal lavoratore direttamente interessato, è possibile percorrere una strada diversa, forse più complessa, ma che può portare a risultati difficilmente raggiungibili mediante la normale causa individuale. Più precisamente, in un caso come questo il sindacato potrebbe promuovere un procedimento per la repressione della condotta antisindacale, ovvero del comportamento con cui il datore di lavoro impedisca, o limiti, l'esercizio della attività sindacale o del diritto di sciopero (art. 28 S.L.).
Il sindacato potrebbe, per esempio, mettere in evidenza che il licenziamento del suo delegato costituisce una ritorsione del datore di lavoro contro l'attività sindacale profusa dal lavoratore. Per esempio, se si riuscisse a provare che mancanze simili a quelle contestate al lavoratore sono state commesse anche da altri colleghi, che non hanno riportato alcuna conseguenza, si potrebbe concludere - appunto - che il licenziamento ha natura discriminatoria. Analogamente si dovrebbe dire, qualora si dimostrasse che le contestazioni, pur formalmente fondate, riguardano aspetti del tutto marginali della esecuzione del rapporto di lavoro, così da indurre ancora una volta a concludere nel senso che il datore di lavoro può averle formulate solo per motivi discriminatori.
Come si vede, una strada come questa presenta essenzialmente due svantaggi: il primo, è che la titolarità di promuovere l'azione non spetta al singolo lavoratore; la seconda, è che è arduo fornire la prova della propria ragione. Tuttavia, questa stessa strada presenta il vantaggio di poter ottenere l'annullamento giudiziale del licenziamento, anche qualora questo sia stato inflitto, da un punto di vista meramente formale, del tutto legittimamente. Inoltre, i tempi della procedura ex art. 28 S.L. sono sensibilmente più rapidi rispetto a quelli di un'ordinaria causa di lavoro. In ogni caso, il fatto di aver promosso una azione non preclude la proponibilità dell'altra.
Il licenziamento, che non sia sorretto da una giusta causa (ovvero un inadempimento del lavoratore talmente grave, da rendere intollerabile la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto), deve essere intimato con il preavviso stabilito dal contratto collettivo di categoria. Durante il periodo di preavviso, di regola, il lavoratore deve continuare a prestare la sua attività lavorativa. Tuttavia il datore di lavoro può dispensare il lavoratore da tale obbligo; in un simile caso, il datore di lavoro dovrà corrispondere al lavoratore l'indennità sostitutiva, pari alle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato durante il preavviso.
Dispensare il lavoratore dall'obbligo di lavorare durante il preavviso comporta vantaggi e svantaggi. Dal primo punto di vista, si deve osservare che il lavoratore mantiene il diritto alla retribuzione, senza dover prestare la propria attività lavorativa. Di contro, con la corresponsione della indennità sostitutiva del preavviso, il rapporto di lavoro viene immediatamente a cessare, e il lavoratore perde gli eventuali benefici che avrebbe potuto conseguire qualora il rapporto di lavoro fosse proseguito, sia pure solo fino alla scadenza del preavviso. Per esempio, il lavoratore non fruirà degli aumenti retributivi che andranno a regime dopo la cessazione del rapporto. Inoltre, il lavoratore perderà i vantaggi derivanti dall'effetto interruttivo che la malattia ha nei confronti del preavviso.
Si vede quindi che, a seconda dei casi, talvolta il lavoratore potrebbe essere interessato a lavorare durante il preavviso; altre volte, l'interesse potrebbe essere quello di percepire la corrispondente indennità sostitutiva. In ogni caso il lavoratore non può, senza il consenso del datore di lavoro, pretendere di non effettuare la prestazione lavorativa, ricevendo in cambio l'indennità. Simmetricamente, il datore di lavoro non può, senza il consenso del lavoratore, pretendere che quest'ultimo non lavori, accontentandosi di ricevere l'indennità.
Più precisamente, se il datore di lavoro rinuncia al preavviso lavorato, il lavoratore non può unilateralmente pretendere di lavorare; tuttavia, può, se lo ritiene, fruire di tutti i benefici economici e normativi che gli sarebbero dovuti se lavorasse. A questo fine, è necessario comunicare tempestivamente al datore di lavoro il proprio dissenso alla dispensa del preavviso lavorato, invitandolo a ricevere la propria prestazione lavorativa e avvertendolo che, in difetto, egli non è liberato dagli obblighi che sarebbero derivati qualora fosse stata adempiuta la prestazione lavorativa durante il preavviso.
Di regola, il lavoratore può essere licenziato quando, nell’ambito del rapporto di lavoro, pone in essere dei comportamenti che risultano incompatibili con la prosecuzione di tale rapporto, e che possono consistere, per esempio, in una grave insubordinazione nei confronti dei propri superiori piuttosto che nella sottrazione di materiali aziendali. In questo caso si parla di giusta causa di licenziamento, che sta appunto ad indicare una grave violazione, da parte del lavoratore, dei propri obblighi di diligenza e di fedeltà.
Peraltro, è prevista, dal nostro ordinamento, anche l’ipotesi del licenziamento per "giustificato motivo soggettivo". Con tale espressione si fa riferimento, più in generale, anche a comportamenti del lavoratore che, pur non realizzandosi nell’ambito dell’attività lavorativa, o comunque in connessione con essa, risultano comunque tali da compromettere il rapporto fiduciario che sta alla base di ogni rapporto di lavoro.
Per esempio, se il cassiere di una banca sottrae del denaro alla banca stessa, ci si troverà, ragionevolmente, in presenza di una giusta causa di licenziamento, ferma restando la necessità di valutare la gravità del comportamento (è diverso se il furto è di mille lire piuttosto che di un milione) e le eventuali giustificazioni del lavoratore. Se, invece, lo stesso cassiere dovesse essere sorpreso a rubare, per esempio, in un grande magazzino, al di fuori del proprio orario di lavoro o nel periodo di ferie, non ci si troverebbe in presenza di una giusta causa di licenziamento, dal momento che lo stesso non avrebbe violato alcun obbligo relativo al proprio rapporto di lavoro. Nondimeno, la banca potrebbe, fondatamente, non fidarsi più di una persona che, per le sue caratteristiche soggettive, risulterebbe non più idonea a svolgere il ruolo di responsabilità affidatale.
In definitiva, è vero che anche comportamenti esterni all’attività lavorativa possono avere un riflesso sul rapporto di lavoro; ciò, peraltro, solo nel caso in cui, per la gravità degli stessi e per il ruolo affidato al lavoratore, sia oggettivamente possibile dedurre, da tali comportamenti, il venir meno, in modo irreversibile, del rapporto di fiducia. Se, per tornare all’esempio precedente, colui che è stato sorpreso a rubare in un supermercato svolgesse, invece che il ruolo di cassiere, mansioni che non lo pongono in contatto con denaro od altri beni aziendali, risulterebbe arduo sostenere che un fatto commesso al di fuori dell’attività lavorativa, magari per la prima volta, possa costituire una ragione sufficiente per privare una persona della propria occupazione ovvero, di norma, della propria unica fonte di sostentamento.
La posizione contributiva del lavoratore illegittimamente licenziato andava comunque regolarizzata. La nuova normativa prevede espressamente con l'art. 18 S.L., a seguito della modifica introdotta dalla L. 108/1990, che il giudice, accertata la illegittimità del licenziamento, oltre a ordinare la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, debba condannare il datore di lavoro al risarcimento del danno, corrispondendo una indennità commisurata alla retribuzione dovuta dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione, nonché al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dovuti nello stesso periodo.
Poiché il risarcimento del danno è dovuto nella misura minima di 5 mensilità, potrebbe accadere che l'indennità menzionata sia superiore alle retribuzioni effettivamente perdute. Ciò potrebbe accadere se il lavoratore fosse reintegrato prima della scadenza del quinto mese dalla data del licenziamento. E' peraltro ovvio che, in questo caso, il versamento dei contributi deve coprire solo il tempo effettivamente intercorrente tra il licenziamento e la reintegrazione.
Invece, la legge non disciplina la questione contributiva in ordine alla indennità, commisurata a 15 mensilità, che il lavoratore può rivendicare al posto della reintegrazione. Resta così controverso se, in questo caso, il datore di lavoro sia anche obbligato al versamento dei contributi. A tale riguardo, bisogna però segnalare che l'Inps ha emanato una circolare secondo la quale i contributi non sono dovuti, dal momento che la somma non viene corrisposta a titolo di retribuzione, avendo natura risarcitoria.
Il termine mobbing trae origine dal verbo inglese "to mob", mutuato addirittura dall'etologia, dove sta ad indicare il comportamento di alcune specie di animali consistente nel circondare minacciosamente un membro del gruppo per allontanarlo dal gruppo stesso.
Nel contesto dei rapporti umani che si sviluppano sul luogo di lavoro il termine è associato propriamente a quell'insieme di atti e comportamenti posti in essere deliberatamente e ripetutamente nel tempo dal datore di lavoro o dai superiori (mobbing verticale), ovvero dai colleghi di pari livello o subalterni (mobbing orizzontale), nei confronti di un soggetto designato, tali da porlo in una condizione di estremo disagio caratterizzata da isolamento che può danneggiare l'integrità psico-fisica del lavoratore in modo transitorio o, nei casi più gravi, permanente, e spesso tale da indurlo alle dimissioni.
Per mobbing verticale si intende quella serie di atti e comportamenti posti in essere deliberatamente e ripetutamente nel tempo dal datore di lavoro o dai superiori del lavoratore.
Per mobbing orizzontale si intende quella serie di atti e comportamenti posti in essere deliberatamente e ripetutamente nel tempo dai colleghi di pari livello o anche da subalterni del lavoratore designato.
Lo psicologo tedesco Henz Leyman ha suddiviso i comportamenti che configurano ipotesi di mobbing in 5 categorie principali, individuando, per ciascuna categoria, i comportamenti tipici:
I. COMUNICAZIONE
II. RELAZIONI SOCIALI
III. IMMAGINE SOCIALE
IV. VITA PROFESSIONALE E PRIVATA
V. SALUTE
La tutela che l'ordinamento appronta per prevenire e sanzionare le ipotesi di mobbing si svolge su ambiti giuridici differenti e fa riferimento a diverse fonti:
Il diritto alle prestazioni pensionistiche è subordinato alle condizioni che, in via generale, sono: il verificarsi dell’evento protetto (per esempio il compimento di una determinata età) e il possesso da parte dell’assicurato di determinati requisiti contributivi e assicurativi.
La pensione di vecchiaia spetta qualora ricorrano contemporaneamente le seguenti condizioni:
Il diritto alla pensione di vecchiaia lavoratori dipendenti è subordinato al compimento dell’età di 65 anni per gli uomini e di 60 per le donne.
La legge prevede in alcuni casi la riduzione dei requisiti di età per l’accesso al pensionamento in presenza di situazioni soggettive particolari:
Il diritto alla pensione di vecchiaia è riconosciuto quando il lavoratore possa far valere almeno 20 anni di contribuzione. Al fine di tutelare posizioni precedenti al 1993 (anno da cui è iniziato l’innalzamento del limite di età), è stabilito che si continuino ad applicare i precedenti requisiti (15 anni) per alcuni soggetti.
I lavoratori dipendenti hanno diritto alla pensione di anzianità quando possano far valere, in alternativa:
In entrambi i casi è richiesta la cessazione del rapporto di lavoro subordinato.
Il diritto alla pensione in favore dei superstiti sorge in caso di morte del pensionato oppure del lavoratore in attività, a condizione che quest’ultimo, al momento del decesso, possa far valere almeno 15 anni di contribuzione, ovvero 5 anni, di cui almeno 3 versata nei quinquenni precedente la data del decesso.
La pensione a favore dei superstiti si distingue in:
I superstiti aventi diritto alla pensione si possono classificare in due grandi gruppi:
La vedova o il vedovo hanno sempre diritto alla pensione, a volte anche in presenza di divorzio.
Il cumulo tra reddito e pensione di superstiti (di reversibilità o indiretta) è consentito con determinati limiti.
Se è sino a tre volte il minimo Inps, che nel 2003 è di 15.682,68 Euro, si ha diritto al 100% della pensione di reversibilità.
Se è superiore a 3 volte il minimo quindi da 15.6868 Euro a 20.910,24 Euro si ha diritto al 75% (- 25%) della pensione di reversibilità.
Se è superiore a 4 volte il minimo e cioè da 20.910,24 Euro a 26.137,80 Euro si ha diritto al 60% (- 40%). Se è superiore a 5 volte il minimo, quindi oltre 26.137,80 Euro, si ha diritto solo al 50% della pensione di reversibilità.
L'assegno pari ad euro 1.000, di cui all' articolo 21 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269 convertito in legge ( l. 24 novembre 2003 n. 326, pubblicata sulla G.U. n.274 del 25.11.2003 - S.O. n. 181), è concesso per ogni figlio nato dal 1° dicembre 2003 al 31 dicembre 2004, che sia secondo od ulteriore per ordine di nascita. Lo stesso assegno è concesso per ogni figlio adottato nel medesimo periodo. In caso di parto gemellare o plurigemellare, l'assegno è concesso per ogni figlio secondo od ulteriore.
Ai fini dell'ottenimento dell'assegno la madre del bambino deve:
Il Comune di residenza della madre, all'atto dell'iscrizione anagrafica del nuovo nato o adottato, provvede a verificare il possesso dei suddetti requisiti e a trasmettere le necessarie informazioni all'INPS ai fini dell'erogazione dell'assegno. Per l'erogazione dell'assegno per il secondo figlio (aggiornamento del 23 marzo 2004).